L’educazione è materiale sociale e politico; la si produce sempre, anche senza accorgersene e se ne è continuamente influenzate/i e condizionate/i attraverso il linguaggio della TV, dei social network, le relazioni familiari, gli amici e le amiche, l’arte, lo sport, i modi di vestire e di comportarsi, le religioni, i riti collettivi.
La sfida educativa è quindi grande e a mio avviso così sintetizzabile: imparare da ciò che si vive, dare un significato a ciò che accade, scegliere e agire consapevolmente per accompagnare la trasformazione di se stesse/i e del mondo.
L’educazione che mi piace, che pratico, è strumento del diventare. Scelgo uno sguardo attento alla complessità e consapevole, capace di leggere, narrare e valutare ciò che accade nel qui e ora, non nello spazio ristretto e circostanziato, ma in un orizzonte globale.
L’individuo è inserito in una famiglia, che fa parte di una collettività che vive un sistema culturale, sociale, politico ed economico.
Mi chiedo: lo spaccato di mondo in cui vivo, a che cosa sta educando? A che cosa non sta educando? Quali priorità educative pone? Chi è coinvolto ed emarginato da quali processi? Quali opportunità e quali ostacoli di crescita creano? Quali disuguaglianze?
Accogliere lo sguardo sul mondo di ognuna delle persone con cui mi trovo a lavorare, significa vivere la relazione intersoggettiva a partire da alcune domande di fondo che ci riguardano tutte e tutti: Chi sei? Come vuoi essere chiamata/o? Che cosa ti impedisce di esprimerti liberamente? Di quali privilegi o svantaggi credi di essere depositaria/o? Che cosa possiamo fare insieme perché tu possa essere messa/o nella condizione di agire, trasformare, creare?
L’educazione serve a diventare, l’ho già detto, lo ripeto. E diventare lo si scopre, lo si affronta spesso con fatica, costruendo, vivendo, modificando, condividendo i propri valori, conflitti, desideri, limiti.
L’identità di ognuno di noi è fatta da molteplici aspetti, alcuni stabili, moltissimi fluidi e mutevoli.
Apparteniamo ad una famiglia etnica ed abbiamo una cittadinanza: a volte la prima e la seconda corrispondono, altre volte no, altre ancora la seconda non ci viene riconosciuta e siamo consegnate/i all’invisibilità e all’illegalità.
Siamo chiamate/i a definire la nostra identità ed orientamento di genere. A volte la nostra identità di genere corrisponde al nostro sesso biologico, altre volte no e conquistarla comporta un lungo processo burocratico, psicologico e di lotta contro il pregiudizio. Alcune volte ci piacciono persone del nostro stesso genere, altre volte no, altre volte ci piacciono più persone, altre volte nessuna. Questo è giuridicamente solo in parte ammesso e socialmente troppo spesso stigmatizzato.
Abbiamo un corpo e ad esso rivolgiamo uno sguardo estetico: per alcune persone il riflesso di questo corpo è molto simile a ciò che socialmente viene identificato come “normale” e “bello”, altre volte si discosta da quei parametri. Ci sono città e società più o meno costruite alla misura di tutti i corpi possibili: meno la società in cui viviamo è impegnata nel riconoscimento per ogni corpo delle medesime opportunità, meno di fatto c’è per ognuno di noi la possibilità di esprimere e sfidare il proprio potenziale. Ogni società e ogni tempo definisce un canone di bellezza, non corrispondere a quello può essere escludente.
Siamo chiamate/i a costruirci un futuro. Fin dalla nascita ogni conquista è finalizzata ad un dopo, momento nel quale si capiranno le fatiche dell’adesso.Nella realtà, il percorso di ognuno di noi è complesso e sfumato, fatto di cambi rotta, traiettorie non lineari, desideri contraddittori, insuccessi, fatiche e soddisfazioni, decentramenti, accettazione di zone d’ombra.
Il pensiero pedagogico che orienta la mia pratica professionale è intersezionale, delle diversità e narrativo. Intersezionale come il femminismo nato alla fine degli anni ’80 che guarda all’interconnessione dei motivi di esclusione (razza, sesso, orientamento di genere, abilità… ) che producono disuguaglianza sociale, politica ed identitaria. La mia pedagogia si muove quindi andando a lavorare sul divenire di ogni persona in relazione ai fattori soggettivi, inter soggettivi ed istituzionali nei quali vive. È anche una pedagogia delle diversità, intesa come unicità di ogni singolo individuo. Siamo tutte e tutti diverse e diversi per nascita e per scelta: ognuno/a di noi deve poter esprimere e sviluppare la propria identità liberamente e pienamente. È una pedagogia narrativa perchè guarda al linguaggio come strumento di racconto autentico e rispettoso. Narrare e rappresentare rende visibile: le cose esistono nel modo in cui le diciamo e le rappresentiamo, le cose che non si dicono e non si vedono sono condannate alla solitudine ed all’invisibilità. Orientarsi ad una pedagogia narrativa significa utilizzare l’ascolto ed il racconto come strumenti per dare corpo ed immagine ai propri ed altrui corpi, pensieri, sentimenti, progetti, modi di essere. Parlare diventa quindi un modo per dare nuovi e più ampi significati alle parole, al modo in cui si trattano le persone e le cose, in cui si vivono le esperienze, in cui si attribuiscono significati.
L’educazione è materiale sociale e politico; la si produce sempre, anche senza accorgersene e se ne è continuamente influenzate/i e condizionate/i attraverso il linguaggio della TV, dei social network, le relazioni familiari, gli amici e le amiche, l’arte, lo sport, i modi di vestire e di comportarsi, le religioni, i riti collettivi.
La sfida educativa è quindi grande e a mio avviso così sintetizzabile: imparare da ciò che si vive, dare un significato a ciò che accade, scegliere e agire consapevolmente per accompagnare la trasformazione di se stesse/i e del mondo.
L’educazione che mi piace, che pratico, è strumento del diventare. Scelgo uno sguardo attento alla complessità e consapevole, capace di leggere, narrare e valutare ciò che accade nel qui e ora, non nello spazio ristretto e circostanziato, ma in un orizzonte globale.
L’individuo è inserito in una famiglia, che fa parte di una collettività che vive un sistema culturale, sociale, politico ed economico.
Mi chiedo: lo spaccato di mondo in cui vivo, a che cosa sta educando? A che cosa non sta educando? Quali priorità educative pone? Chi è coinvolto ed emarginato da quali processi? Quali opportunità e quali ostacoli di crescita creano? Quali disuguaglianze?
Accogliere lo sguardo sul mondo di ognuna delle persone con cui mi trovo a lavorare, significa vivere la relazione intersoggettiva a partire da alcune domande di fondo che ci riguardano tutte e tutti: Chi sei? Come vuoi essere chiamata/o? Che cosa ti impedisce di esprimerti liberamente? Di quali privilegi o svantaggi credi di essere depositaria/o? Che cosa possiamo fare insieme perché tu possa essere messa/o nella condizione di agire, trasformare, creare?
L’educazione serve a diventare, l’ho già detto, lo ripeto. E diventare lo si scopre, lo si affronta spesso con fatica, costruendo, vivendo, modificando, condividendo i propri valori, conflitti, desideri, limiti.
L’identità di ognuno di noi è fatta da molteplici aspetti, alcuni stabili, moltissimi fluidi e mutevoli.
Apparteniamo ad una famiglia etnica ed abbiamo una cittadinanza: a volte la prima e la seconda corrispondono, altre volte no, altre ancora la seconda non ci viene riconosciuta e siamo consegnate/i all’invisibilità e all’illegalità.
Siamo chiamate/i a definire la nostra identità ed orientamento di genere. A volte la nostra identità di genere corrisponde al nostro sesso biologico, altre volte no e conquistarla comporta un lungo processo burocratico, psicologico e di lotta contro il pregiudizio. Alcune volte ci piacciono persone del nostro stesso genere, altre volte no, altre volte ci piacciono più persone, altre volte nessuna. Questo è giuridicamente solo in parte ammesso e socialmente troppo spesso stigmatizzato.
Abbiamo un corpo e ad esso rivolgiamo uno sguardo estetico: per alcune persone il riflesso di questo corpo è molto simile a ciò che socialmente viene identificato come “normale” e “bello”, altre volte si discosta da quei parametri. Ci sono città e società più o meno costruite alla misura di tutti i corpi possibili: meno la società in cui viviamo è impegnata nel riconoscimento per ogni corpo delle medesime opportunità, meno di fatto c’è per ognuno di noi la possibilità di esprimere e sfidare il proprio potenziale. Ogni società e ogni tempo definisce un canone di bellezza, non corrispondere a quello può essere escludente.
Siamo chiamate/i a costruirci un futuro. Fin dalla nascita ogni conquista è finalizzata ad un dopo, momento nel quale si capiranno le fatiche dell’adesso.Nella realtà, il percorso di ognuno di noi è complesso e sfumato, fatto di cambi rotta, traiettorie non lineari, desideri contraddittori, insuccessi, fatiche e soddisfazioni, decentramenti, accettazione di zone d’ombra.
Il pensiero pedagogico che orienta la mia pratica professionale è intersezionale, delle diversità e narrativo. Intersezionale come il femminismo nato alla fine degli anni ’80 che guarda all’interconnessione dei motivi di esclusione (razza, sesso, orientamento di genere, abilità… ) che producono disuguaglianza sociale, politica ed identitaria. La mia pedagogia si muove quindi andando a lavorare sul divenire di ogni persona in relazione ai fattori soggettivi, inter soggettivi ed istituzionali nei quali vive. È anche una pedagogia delle diversità, intesa come unicità di ogni singolo individuo. Siamo tutte e tutti diverse e diversi per nascita e per scelta: ognuno/a di noi deve poter esprimere e sviluppare la propria identità liberamente e pienamente. È una pedagogia narrativa perchè guarda al linguaggio come strumento di racconto autentico e rispettoso. Narrare e rappresentare rende visibile: le cose esistono nel modo in cui le diciamo e le rappresentiamo, le cose che non si dicono e non si vedono sono condannate alla solitudine ed all’invisibilità. Orientarsi ad una pedagogia narrativa significa utilizzare l’ascolto ed il racconto come strumenti per dare corpo ed immagine ai propri ed altrui corpi, pensieri, sentimenti, progetti, modi di essere. Parlare diventa quindi un modo per dare nuovi e più ampi significati alle parole, al modo in cui si trattano le persone e le cose, in cui si vivono le esperienze, in cui si attribuiscono significati.
L’educazione è materiale sociale e politico; la si produce sempre, anche senza accorgersene e se ne è continuamente influenzate/i e condizionate/i attraverso il linguaggio della TV, dei social network, le relazioni familiari, gli amici e le amiche, l’arte, lo sport, i modi di vestire e di comportarsi, le religioni, i riti collettivi.
La sfida educativa è quindi grande e a mio avviso così sintetizzabile: imparare da ciò che si vive, dare un significato a ciò che accade, scegliere e agire consapevolmente per accompagnare la trasformazione di se stesse/i e del mondo.
L’educazione che mi piace, che pratico, è strumento del diventare. Scelgo uno sguardo attento alla complessità e consapevole, capace di leggere, narrare e valutare ciò che accade nel qui e ora, non nello spazio ristretto e circostanziato, ma in un orizzonte globale.
L’individuo è inserito in una famiglia, che fa parte di una collettività che vive un sistema culturale, sociale, politico ed economico.
Mi chiedo: lo spaccato di mondo in cui vivo, a che cosa sta educando? A che cosa non sta educando? Quali priorità educative pone? Chi è coinvolto ed emarginato da quali processi? Quali opportunità e quali ostacoli di crescita creano? Quali disuguaglianze?
Accogliere lo sguardo sul mondo di ognuna delle persone con cui mi trovo a lavorare, significa vivere la relazione intersoggettiva a partire da alcune domande di fondo che ci riguardano tutte e tutti: Chi sei? Come vuoi essere chiamata/o? Che cosa ti impedisce di esprimerti liberamente? Di quali privilegi o svantaggi credi di essere depositaria/o? Che cosa possiamo fare insieme perché tu possa essere messa/o nella condizione di agire, trasformare, creare?
L’educazione serve a diventare, l’ho già detto, lo ripeto. E diventare lo si scopre, lo si affronta spesso con fatica, costruendo, vivendo, modificando, condividendo i propri valori, conflitti, desideri, limiti.
L’identità di ognuno di noi è fatta da molteplici aspetti, alcuni stabili, moltissimi fluidi e mutevoli.
Apparteniamo ad una famiglia etnica ed abbiamo una cittadinanza: a volte la prima e la seconda corrispondono, altre volte no, altre ancora la seconda non ci viene riconosciuta e siamo consegnate/i all’invisibilità e all’illegalità.
Siamo chiamate/i a definire la nostra identità ed orientamento di genere. A volte la nostra identità di genere corrisponde al nostro sesso biologico, altre volte no e conquistarla comporta un lungo processo burocratico, psicologico e di lotta contro il pregiudizio. Alcune volte ci piacciono persone del nostro stesso genere, altre volte no, altre volte ci piacciono più persone, altre volte nessuna. Questo è giuridicamente solo in parte ammesso e socialmente troppo spesso stigmatizzato.
Abbiamo un corpo e ad esso rivolgiamo uno sguardo estetico: per alcune persone il riflesso di questo corpo è molto simile a ciò che socialmente viene identificato come “normale” e “bello”, altre volte si discosta da quei parametri.
Ci sono città e società più o meno costruite alla misura di tutti i corpi possibili: meno la società in cui viviamo è impegnata nel riconoscimento per ogni corpo delle medesime opportunità, meno di fatto c’è per ognuno di noi la possibilità di esprimere e sfidare il proprio potenziale. Ogni società e ogni tempo definisce un canone di bellezza, non corrispondere a quello può essere escludente.
Siamo chiamate/i a costruirci un futuro. Fin dalla nascita ogni conquista è finalizzata ad un dopo, momento nel quale si capiranno le fatiche dell’adesso.Nella realtà, il percorso di ognuno di noi è complesso e sfumato, fatto di cambi rotta, traiettorie non lineari, desideri contraddittori, insuccessi, fatiche e soddisfazioni, decentramenti, accettazione di zone d’ombra.
Il pensiero pedagogico che orienta la mia pratica professionale è intersezionale, delle diversità e narrativo.
Intersezionale come il femminismo nato alla fine degli anni ’80 che guarda all’interconnessione dei motivi di esclusione (razza, sesso, orientamento di genere, abilità… ) che producono disuguaglianza sociale, politica ed identitaria.
La mia pedagogia si muove quindi andando a lavorare sul divenire di ogni persona in relazione ai fattori soggettivi, inter soggettivi ed istituzionali nei quali vive.
È anche una pedagogia delle diversità, intesa come unicità di ogni singolo individuo. Siamo tutte e tutti diverse e diversi per nascita e per scelta: ognuno/a di noi deve poter esprimere e sviluppare la propria identità liberamente e pienamente.
È una pedagogia narrativa perchè guarda al linguaggio come strumento di racconto autentico e rispettoso.
Narrare e rappresentare rende visibile: le cose esistono nel modo in cui le diciamo e le rappresentiamo, le cose che non si dicono e non si vedono sono condannate alla solitudine ed all’invisibilità.
Orientarsi ad una pedagogia narrativa significa utilizzare l’ascolto ed il racconto come strumenti per dare corpo ed immagine ai propri ed altrui corpi, pensieri, sentimenti, progetti, modi di essere.
Parlare diventa quindi un modo per dare nuovi e più ampi significati alle parole, al modo in cui si trattano le persone e le cose, in cui si vivono le esperienze, in cui si attribuiscono significati.